Tharamys

E arricchiamoli ‘sti dialoghi, no?

Metti che ti piace scrivere fantasy e metti che hai bisogno di un sistema per rappresentare un’altra lingua, o un modo di parlare molto particolare.
Puoi usare il metodo “Tolkien” e sviluppare un set di caratteri tutto tuo, col quale infarcire il testo di bellissime rune. Bello, coreografico e costoso. Creare un font è uno sbattimento di maroni di cui non avete minimamente idea. Ma diciamo che con strumenti come fontographer o simili (e quindi la spesa per la licenza) riusciate a fare qualcosa di bello. Poi c’è la -rogna- di portare su carta il font o, peggio (e credetemi sulla parola: è davvero un bagno di sangue) rendere il testo compatibile con i settordicimila reader per ebook presenti in commercio.
Tant’è che per “i Razziatori di Etsiqaar” ho messo un’immagine GIF in bianco e nero in un layer dedicato e ne “lo specchio di Nadear” una delle poche cose che l’editore ha chiesto è stata di non usare font dedicati. Per cui il mio font “Nadear” è andato a donne perdute.
Non è che non si può fare eh? Il Signore degli Anelli, il Silmarillion e lo Hobbit insegnano che, volendo, si possono inserire caratteri nuovi appartenenti a lingue totalmente inventate. Altra prova sono i dizionari Kilngon e Romulano, ma si tratta di progetti editoriali mirati e costruiti attorno ai rispettivi font. Scrivendo narrativa il grosso dello sforzo creativo va alla storia, ai personaggi, all’ambientazione… il font è solo un elemento decorativo, o poco più.
L’idea mi è venuta proprio durante la stesura dei Razziatori e chi vuole può pigliarsi il libro e andare a sbirciare tra le appendici. Avevo ‘sti predoni, che volevano fingere di essere kireziani, ma erano di origine maorni. Lo scopo era mostrare che parlavano la lingua del lettore, ma che lo facevano in modo strano.
La prima idea, quella di usare un font ad hoc, non andava bene: usare font diversi da quelli “di default” era costoso.
O creavo io i font adatti, oppure avrei dovuto comprarli dai rispettivi creativi… e questo sarebbe stato un guaio.
Non avete idea di che razza di ginepraio si nasconda dietro i font. Non crediate che comprare i font su un sito vi dia automaticamente il diritto di utilizzarli per pubblicare un libro. Spesso la licenza riguarda solo il “personal use” e per gli usi commerciali i costi possono essere superiori… ammesso e concesso che il venditore abbia la licenza per farlo. Un incubo.

Così apro la mappa caratteri di windows e… sorpresa! Le lettere dell’alfabeto sono più di 26. Eh lo so, sono almeno 52: una per il maiuscolo e una per il minuscolo. No, sono di più. L’insieme dei caratteri è una cosa enorme. UTF 16, l’attuale codifica dei caratteri per windows, comprende oltre 100.000 caratteri, simboli e quant’altro. UTF32, il prossimo standard, supera il milione.
E si tratta degli stessi standard utilizzati in tipografia e nei lettori di ebook. Per l’html è un pelino più difficile usarli, ma comunque si fa e la corrispondenza è esatta. Insomma arrivo al punto.

Se scrivo
«Vieni avanti!» disse con quello strano accento che lo portava a chiudere tutte le e tra consonanti e le a in finale di parola.

ci manca poco che all’editor venga l’orticaria per cercare di conciliare la micidiale descrizione e la fluidità del dialogo.

MA

Se scrivo
«Viəni avånti!» disse con quello strano accento

arrivano due informazioni precise.
La prima, è evidente, che il tipo ha una pronuncia diversa da quella della lingua del lettore. Cioè se io e te siamo italiani e pronunciamo la parola “Vieni” iniziamo con una velare sonora, seguita da i e poi dalla è aperta. La presenza di un glifo ə al posto della e aperta segnala che quella e è pronunciata in modo diverso.
E qui c’è la seconda informazione: magari chi ha studiato l’alfabeto fonetico internazionale gli da l’esatto suono evocato dal glifo, ma pure chi non ha studiato sa che quel “Viəni” suonerà in modo molto diverso dal nostro “Vieni” e, soprattutto, associerà istintivamente a quella parola un suono diverso.
Non solo.
Mantenere la coerenza con il difetto di pronuncia renderà automaticamente chiaro che “chi parla” è sempre quel personaggio e il suono della sua voce diventerà perfettamente chiaro per il lettore. Probabilmente ogni lettore darà un suono diverso, nella propria testa, a quel personaggio… ma chi se ne frega? Anzi, meglio!
Perché sarà sempre la stessa voce per tutta la durata del libro.

Questa tecnica funziona bene per UN personaggio o per un gruppo di personaggi che parla allo stesso modo e che parli poco.

Nei “Razziatori di Etsiqaar” avevo ‘sti predoni che si volevano far passare per kireziani, ma erano di origine maorni e quindi doveva apparire evidente che usassero le stesse parole del kireziano ovvero la lingua in cui il libro era scritto e che, giocoforza, doveva essere l’italiano.
I Maorni parlano una specie di latino maccheronico e quando si mettono a parlare kireziano gli esce fuori una specie di romanesco condito di suoni napoletani.
Che poi era l’antico dialetto romano prima che Sisto V importasse poeti e letterati toscani per educare la popolazione e così nacque l’espressione “porca ‘matosca” contrazione di “porca la rima tosca” e che faceva il verso alla santa Vergine.
Bestemmie a parte, se avessi inserito nel testo parole in dialetto romanesco e/o napoletano la coerenza interna del romanzo sarebbe crollata miseramente.
Capite bene che nelle terre di Tharamys non possono esserci personaggi che parlano come Proietti o Salemme, sì farebbe ridere, ma poi avrei avuto serissime difficoltà a giustificare la presenza di tali dialetti assurti (per giunta) al ruolo di lingua ufficiale.
E allora?
E allora guardate un po’:

Due banditi lasciano il gruppo e si avvicinano ai carri. Conrad si ritrae nella stalla e cerca un posto in cui nascondersi. Le vacche si agitano al suo passaggio, musi umidi lo annusano, lingue appiccicose leccano i suoi abiti in cerca di sale.
Da fuori sente delle voci.
«Taìs, sei proprio tu?»
«No, sońő tuą nonna: slegamį, qua vicino c’era quaļcuno… e nøn è dei nostri. Dev’esseŕė il rægazzino, l’ho sentito imprecaŕė pochi istanti fa.»
«Rægazzino?» fa eco una voce più grave. «Vedetevela voi, io vado da Dom e głį dico che tį aллįmo trovato sano e saļvo. Sarà contento.»

Adesso riscrivo il pezzo come suona secondo me. Cioè secondo la tabella fonetica che mi son scritto e che associa a ogni simbolo un suono preciso, funziona solo per la mia testa. Per la tua sicuramente avrai “percepito” un altra voce. Il senso però ti è chiaro.

Due banditi lasciano il gruppo e si avvicinano ai carri. Conrad si ritrae nella stalla e cerca un posto in cui nascondersi. Le vacche si agitano al suo passaggio, musi umidi lo annusano, lingue appiccicose leccano i suoi abiti in cerca di sale.
Da fuori sente delle voci.
«Taìs, sei proprio tu?»
«No, so’ tu’ nonna: slegame, qua vicino c’era quaļcuno… e nun è dei nostri. Dev’esse’ il regazzino, l’ho sentito impreca’ pochi istanti fa.»
«Regazzino?» fa eco una voce più grave. «Vedetevela voi, io vado da Dom e je dico che t’avemo trovato sano e sarvo. Sarà contento.»

Magari con le voci di Proietti e Manfredi.

Poche battute, ma nella concitazione del momento (la tensione della scena è in crescendo) il suono delle parole arriva distorto grazie ai caratteri che “assomigliano” alle lettere dell’alfabeto latino, ma che sono anche diverse. Una mia amica linguista, senza neanche leggere la tabella, ha detto “ma si vede subito che è un dialetto del centro italia, osco o romano!” e io “sì, certo, e va bene così”. Lo scopo è far capire che questi predoni parlano diverso, non di nascondere il significato delle parole.

L’aspetto negativo di questo metodo è che la somiglianza delle lettere rischia di creare confusione e, alla lunga, stanca la lettura. Il “correttore ortografico” che abbiamo tutti in testa e ci fa saltare sviste come preciptievole invece di precipitevole o oritcello invece di orticello, consuma molta energia e alla lunga stanca, ma se i dialoghi sono brevi e usati a maniera il problema è di piccola entità.

Inoltre solo l’autore può sapere se ci sono errori di battitura: né un correttore di bozze, né un editor possono arrivarci.
Viceversa i lettori potrebbero andare in puzza e segnalare.

L’aspetto positivo è che se copiate e incollate il dialogo appena citato sul vostro word processor ve lo ritrovate tale e quale. Idem se lo aprite su Kobo, Kindle o qualsiasi altro ebook reader e non importa quale set di caratteri sia installato, basta che sia compatibile con UTF16 o successivi (e UTF 16 è uno standard mondiale). Zero problemi di compatibilità, copyright o altro.

Provare per credere!

5,0 / 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.