Tharamys

Chiamatelo “Personicidio”

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Non ho parole.

Orwell, bontà sua, l’aveva capito prima di tanti altri: se vuoi impedire una rivolta devi togliere quella parola dal dizionario.
Una rivolta richiede che più persone si organizzino e scendano in piazza per agire. Se gli togli le parole necessarie l’organizzazione perde efficienza fino a che salta completamente e le “rivolte” manco più sai dove stanno di casa.
Chiaramente la “neolingua” di Orwell non si limitava alla semplice rivolta, ma tutti i sinonimi erano stati eliminati o storpiati fino a renderne inutile persino il significato. Non puoi parlare di rivolta, di ribellione, se non hai la possibilità di dire di cosa si tratta. Qua siamo in una situazione simile, ma sottilmente peggiore.

È stato utilizzato il termine “Femminicidio” che, per carità, è un tentativo, ma la radice “Femmin-” è spesso usata per denigrare, per indicare una situazione di poca importanza, di “serie B”: è roba da femminemi pari una femminucciamio Dio, ma che sei, una femmina?
Un po’ come dire che la morte al maschile è ben più grave.
Tant’è che la corte d’assise di Padova ha recentemente condannato una giovane donna che ha accoltellato il suo ex uccidendolo sul colpo.
Non sto a commentare il fatto che anche le donne possono uccidere, siamo tutti esseri umani e tutti potenzialmente uccisori: sarebbe una cosa da ricordare anche ai bambini. No, ma la condanna: 24 anni è abbastanza indicativa. Ho visto assassini mafiosi condannati a 20 anni e con alle spalle una lunga carriera di sangue e morte, però erano maschi. Mah. Sarà, magari sono prevenuto io.
Se il nuovo uccisore verrà riconosciuto colpevole mi auguro che la pena sia dello stesso livello o superiore dato che qua le, p0rc0**i0 presunte, coltellate son state una ventina. Scusa la bestemmia, ma il Vecchio sa bene che questo è solo un anticipo e potrà sbattermi nell’angolo d’inferno più remoto e impossibile da immaginare, ma l’eternità è lunga e prima o poi troverò il modo di riuscire a prenderlo a calci là dove non batte il sole.
E ne ho tanti di calci da tirare, uno sarà per Giulia Cecchettin e la sua “presunta” uccisione da parte del suo “presunto” uccisore che subirà una condanna compresa tra 10 e 20 anni, gliene toglieranno 3 perché incensurato e dopo una decina di anni di pena comincerà a beneficiare di permessi, sconti e quant’altro. So che non devo condannare prima che un giudice abbia espresso il suo verdetto, ma… oh, qua sono nel mio blog, a casa mia. Al momento non ho accusato nessuno dell’uccisione di GIulia e non lo farò, a quello penseranno il PM e il suo staff. Il giudice giudicherà e io sognerò il momento in cui fonderanno la chiave gettandola nello Stromboli, che se la butti via qualcuno potrebbe avere la brillante idea di ritrovarla.
Si potrebbe usare il termine assassinio e quindi assassino/a per indicare lo stesso crimine è già un termine più preciso, non fa distinzione di sesso e però ha un altro problemino. Il termine ha origine da una setta persiana dedita all’uccisione di esseri umani per mezzo di killer strafatti di hasish e convinti di andare in paradiso grazie all’uccisione.
Qui si rischia di inserire in modo più o meno palese l’incapacità di intendere e di volere.

A me è venuta in mente la parola “Personicidio” che se pure un po’ generica: persona è qualunque individuonon necessariamente umano, dunque il significato è “Uccisione di una persona”.
Nel momento in cui viene usata la locuzione “il personicidio di Giulia Cecchettin” e, purtroppo, di qualsiasi altra donna che rimarrà vittima della violenza di un maschio della sua stessa specie, ecco che qualcosa nella testa fa “crack” almeno finché non ci si abituerà al nuovo termine (personicidio non esiste) e il perché l’ho scelto è molto semplice, anche se non facile da capire.

Persona viene fatto derivare dal termine latino che usiamo pari pari (persona, personae… ecc… ) ma l’origine ha un passaggio in mezzo che vale la pena ricordare: gli etruschi usavano la parola “phersu” per indicare tanto la maschera che indossiamo, ovvero la nostra personalità, che la maschera dell’attore, che un personaggio di cui non si sa ancora molto. Phersu è un essere che compare in molti affreschi legati al gioco e alla morte (anche piuttosto cruenta, come raffigurato nella tomba degli Auguri a Tarquinia) e sono abbastanza sicuro che i romani abbiano preso in prestito il concetto da loro come tante altri. Il significato di personalità però è quello che mi piace di più: è ciò che rende unica una persona e quindi la sua uccisione sottolinea la perdita definitiva di qualcosa di unico e irripetibile.

Accettando l’origine etrusca del termine abbiamo un ulteriore vantaggio: la società etrusca era matriarcale. Le donne etrusche erano le persone più libere dell’antichità, o meglio: la libertà di cui godevano le donne nella società etrusca non era minimamente paragonabile al regime di semi-schiavitù nell’antica Grecia e al servilismo cui erano assoggettate a Roma.

Dunque l’idea di usare un termine derivato da una società, se non proprio matriarcale, fortemente influenzata dalle donne come quella etrusca mi pare un buon grimaldello per scassinare il pensiero corrente a proposito del reale valore di una donna rispetto a un uomo.

A cominciare da me.

Per tutta la vita sono stato educato da genitori, nonni, zii che seguivano il precetto cristiano “donna sottomessa all’uomo” e poi la scuola, le suore spose in Cristo che si sottomettevano al suo amore (ma quando mi vietarono di giocare a “Ufo Robot”, nel ’78, lanciai l’idea di giocare agli dei pagani… ma questa è un’altra storia), per tacere del lavoro dove a parità di mansione io venivo pagato di più rispetto a una donna.
Ecchecazz… c’è un modo di pensare, da parte della società tutta… perfino da parte delle donne stesse, che trovo concettualmente iniquo. Stessi diritti, stesse responsabilità: se sono stati comminati 24 anni per una coltellata mortale, mi aspetto che per venti coltellate, occultamento e vilipendio di cadavere, resistenza all’arresto e tutti gli altri reati che verranno contestati al (p0rc0**io) presunto personicida verranno richiesti almeno 30 anni (il massimo, senza ergastolo) da scontare rigorosamente dietro le sbarre.

Per riuscirci occorre cambiare le parole che usiamo, quelle di adesso come “uxoricidio”, “femminicidio”, “assassinio” limitano o riducono le responsabilità del colpevole. Inseriscono una sorta di giustificazione, di ridimensionamento della colpa o un assoggettamento a una categoria talmente ampia da renderla quasi astratta. Un omicidio? Una goccia nel mare se anche la parola “strage” ai giorni nostri è parecchio consumata.

Adesso ci prendiamo tutti il termine “personicidio” e sempre riferito al nome di chi, per volontà altrui, non c’è più. Se cambiamo la testa delle persone, la società cambia e le parole sono lo strumento più efficace.

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