Tharamys

SIRACVSA (pars I)

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Questa Storia è dedicata a mia nonna. Fortunata di nome e di fatto aveva una riserva di favole apparentemente infinita, ma questa mi piaceva particolarmente perché era vera. Mia nonna mi raccontava spesso della morte di Archimede, lo scienziato siracusano vissuto nel III secolo a.C., per mano di un soldato romano. Il soldato domandava a tutti “Sei tu Archimende?” e se rispondevano no o li ammazzava o li prendeva come schiavi. Archimede era intento a scrivere qualcosa sulla sabbia, ma nessuno saprà mai di cosa si trattasse perché quando il soldato lo raggiunse lui non rispose, perso in chissà quale calcolo.

A me ‘sta cosa è rimasta sullo stomaco. Poteva salvarsi. Poteva dire “Sì, sono io Archimede!” e vivere ancora qualche anno. Perché? Cosa aveva scoperto da valere più della sua stessa vita? Cosa l’aveva appassionato a tal punto?

La domanda ha continuato a ronzarmi in testa fino al 2012 quando ho tirato giù questo racconto, dopo lunghe ricerche per ricostruire come si deve l’ambientazione. Siracvsa era una città molto bella e l’assedio, per i romani, fu un vero incubo, occorreva raccontare tutto il necessario per rendere la vicenda credibile.

Buona lettura!

Anno 543 ab Urbe condita

La città era perduta.
Il console Claudio Marcello, con un astuto stratagemma, era riuscito a fomentare le sue truppe e a spingerle oltre le porte della città spalancate da alcuni siracusani favorevoli ai romani. I soldati romani ora dilagavano per le vie di Siracusa trucidando gli abitanti o riducendoli in schiavitù, a eccezione di quelli rimasti fedeli a Roma e che avevano consentito alle truppe romane di entrare in città.
Rimasto solo nella sua casa sull’isola Ortigia, Archimede aveva riposto tutti i suoi scritti, i modelli delle sue macchine e i suoi preziosi rotoli di pergamena in una stanza segreta nascosta dietro a un muro e la cui porta era celata da un mosaico raffigurante il dio Apollo a bordo del suo cocchio, mentre portava in cielo il sole nascente.
L’anziano pur essendo uno scienziato e non un politico, non aveva avuto bisogno di chissà quale acume per prevedere quanto stava ora accadendo; lo aveva ripetuto ai suoi concittadini fino a perdere la voce: neanche gli dei impediranno la vendetta di Roma!
Non era stato ascoltato. I suoi concittadini udite le notizie riguardo le gesta di Annibale e delle sue schiaccianti vittorie contro i romani, stanchi di dover pagare pesanti tasse ai romani, avevano deciso di ribellarsi e fare a meno di quegli scomodi alleati ormai prossimi alla caduta. Era stata una pessima decisione: i romani non solo avevano sconfitto Annibale, ma si stavano riprendendo, con i debiti interessi, di tutte le sconfitte subite in precedenza.
Il vecchio scrollò la sua barba bianca e uscì dal vano segreto: la casa era deserta, ma da fuori si udiva sempre più forte il cozzare delle armi.
I romani erano sempre più vicini e la barca, ormeggiata vicino la fonte Aretùsa, non avrebbe atteso ancora a lungo.
Spinse la porta, un pezzo di muro incernierato su cardini di bronzo bene oliati, fino a richiuderla con un leggerissimo scatto. Dall’esterno il passaggio era indistinguibile dal resto del muro, al punto che trovare la tessera del mosaico che comandava il meccanismo di apertura, in mezzo a migliaia di altre simili, era impossibile per chi non fosse a parte del segreto.
Il vecchio si rese conto che non avrebbe potuto istruire facilmente qualcuno per recuperare le sue proprietà, d’altro canto temeva che avrebbe mai riveduto Siracusa.
Osservò il mosaico in cerca di un punto di riferimento: le tessere erano disposte in maniera estremamente regolare, come le case nella città di Mileto, in modo da nascondere le linee della porta.
Contò quante tessere separavano quella che comandava il meccanismo di apertura dalla cornice del mosaico: centodieci partendo dal basso e centoquaranta partendo da sinistra. Un metodo semplice ed essenziale: con due numeri poteva istruire facilmente una persona in grado di contare.
Un rumore proveniente dalla porta lo fece trasalire: i romani erano giunti alla sua casa, ma quei due numeri che aveva appena trovato gli avevano suggerito un’idea tanto pazzesca quanto sconvolgente, al punto da tenerlo incollato davanti al mosaico con occhi colmi di reverente stupore.
Che forse lo stesso divino Apollo avesse ispirato la sua mente vecchia e stanca, riversando in essa nuove energie?
Il vecchio scienziato si era appena accorto che attraverso una coppia di numeri poteva identificare un punto su un piano in maniera univoca: immaginò allora di avere un altro mosaico sul pavimento, perpendicolare al primo, in quel caso con tre numeri avrebbe potuto identificare in maniera univoca un qualsiasi punto all’interno della stanza… e oltre: con tre numeri poteva identificare qualsiasi punto in tutto l’universo!
Osservò il dio raffigurato nel mosaico con rinnovato rispetto ed ebbe la fugace impressione che stesse sorridendo.
Ripensò allora alle coniche e al metodo che aveva inventato per calcolare il volume dei solidi di rotazione: con quel nuovo strumento avrebbe potuto ottenere metodi di calcolo migliori, più precisi, ma la sua mente non era ancora paga di quella scoperta.
«E se ci fosse un altro numero accanto ai primi tre, cosa indicherebbe questo? Quale altra dimensione esiste perpendicolare alle altre tre?» disse rivolto al dio nel mosaico.
La risposta venne immediatamente sotto forma di una interminabile sequenza di eventi, le curve che aveva immaginato presero ad animarsi trascinate dallo scorrere del tempo.
«Il Tempo!» Archimede rimase letteralmente folgorato da questa rivelazione improvvisa. Qualcosa in lui gli suggeriva, anzi: urlava proprio, che tempo e spazio erano strettamente correlati, come altezza, lunghezza e profondità il tempo era una direzione come le altre, una direzione che l’occhio non riusciva a seguire, ma comunque possibile.
La mente dello scienziato vacillò sotto l’enormità di quella scoperta. Già Platone, secoli prima, aveva asserito che: “l’occhio inganna, la realtà non si limita necessariamente a quel che appare”.
Aveva ragione, ovviamente.
«Se le dimensioni fossero più di tre ci sarebbero aperture invisibili» disse tra sé Archimede rammentando i racconti di quando era più giovane, riguardanti persone che svanivano nei muri e di voci che si udivano attraverso pareti di roccia, spesse anche decine di piedi. Si narrava che lo stesso Dionigi avesse sfruttato queste proprietà “magiche” per origliare i discorsi degli schiavi che aveva messo al lavoro nelle cave poco lontano dalla città.
«Dunque» esordì Archimede, rivolto all’immagine di Apollo «se fossero sei le dimensioni poste ad angolo retto tra di loro, per ogni diedro sarebbero necessari almeno quattro piani perpendicolari perché si possa ottenere un diedro chiuso, mentre ogni spigolo di questa stanza è formato al massimo da due piani» e così dicendo si avviò all’angolo posto alla sua sinistra per esplorarlo con le mani. L’idea in sé era folle e tutta da verificare, ma ormai lo scienziato era decisamente “partito per la tangente”, come sempre quando trovava un’idea affascinante… e quella era un’idea in cui perdersi piacevolmente.

Il centurione Caio Terenzio irruppe nella stanza, mentre i suoi uomini si erano sparsi per tutta la casa in cerca di tesori o altri siracusani da catturare: vide un vecchio, con indosso una toga grigia, allontanarsi verso l’angolo più lontano da lui, nell’evidente tentativo di sfuggirgli.
«Sei tu Archimede?» gridò. Come ogni altro soldato aveva ricevuto l’ordine di trovare e scortare il matematico dal console e di uccidere tutti gli altri siracusani ostili a roma e che non erano in grado di diventare buoni schiavi.
Il vecchio si girò un istante verso di lui dicendogli, piuttosto seccato:
«vattene, che ho da fare»
Caio decise che quello non poteva essere uno scienziato né uno schiavo promettente.
Archimede scrutava l’angolo che aveva di fronte in cerca del varco tra le dimensioni, probabilmente queste erano meno di sei, forse la sua intuizione non era stata corretta: in uno spazio a quattro dimensioni il passaggio sarebbe stato percorribile solo da una retta euclidea, mentre con cinque solo da un piano. Soltanto con sei dimensioni sarebbe stato possibile il transito di un oggetto tridimensionale, o almeno questo era ciò che il suo intuito gli diceva e si voltò verso l’immagine di Apollo come a pregarlo di concedergli nuova ispirazione lui che era il nume delle arti e delle scienze. Incurante del soldato che stava per trapassarlo da parte a parte con la sua spada, Archimede vide, o forse immaginò solamente, qualcosa di incredibile: un oggetto formato da sei piani perpendicolari tra loro. L’oggetto, apparentemente impossibile, era davanti a lui con i vertici che parevano poggiare in direzioni che sfuggivano al suo sgardo non appena lo distoglieva. Sembrava animato di vita propria.
«Eureka!» disse e poi fu solo silenzio.

 

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