Tharamys

Slada e il luccichio del Male

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Questo racconto nasce per un concorso a tema “Diritti Umani”, anche se non ha vinto è piaciuto molto ed ha avuto un bel testa a testa col vincitore che, indubbiamente, aveva una marcia in più. Per un po’ l’ho tenuto su Wattpad, ma da quando la piattaforma ha obbligato anche i lettori casuali a registrarsi (riducendo al lumicino gli accessi con conseguente crollo della visibilità) ho deciso di toglierlo e metterlo sul mio blog dove se pure non c’è la possibilità di essere letto da millemila lettori (ma non ci sono lettori su Wattpad) non c’è pure nessuno che rompe gli attributi al prossimo con richieste di dati personali. Sì, ci sono i cookie di navigazione, ma la loro presenza è discreta: non disturbano e non impediscono la lettura.  Spero di cuore che vi piaccia.

«Il prossimo banchetto sarà in tuo onore» Lucius, sdraiato sul triclinio pareva annoiato come se stesse parlando del tempo.

Slada sentì ondeggiare il pavimento sotto di lei e le sembrò che alcune tessere del mosaico volessero penetrarle nella carne: aveva appena udito la sua condanna a una morte orribile e dolorosa.

La faccia rubiconda dell’uomo fu attraversata da una ruga di preoccupazione «Cos’hai schiava? Sembri pallida… Faustina! Portala via e preparala!» aggiunse rivolto alla donna che, sapeva, essere in attesa dietro l’ingresso della sala. La luce del tramonto proiettava ombre dorate sugli affreschi: fauni e ninfe intenti a danzare e suonare. Slada lanciò un’ultima occhiata al sole al tramonto: sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto il disco di Einungis virare al rosso e sparire dietro il dorso di Tharamys per riposare. Le mani ossute dell’anziana l’afferrarono per le spalle riscuotendola da pensieri e preghiere confuse al suo dio.

«Fai in modo che sia perfetta: non voglio sfigurare di fronte ai miei amati ospiti» sul volto dell’uomo ogni traccia di allegria era svanita. Il corpo tarchiato e grassoccio, a stento contenuto dalla tunica color porpora, appariva irrigidito. Slada notò una chiazza scura proprio sotto al mento dovuta a qualche goccia di vino caduta dal calice col quale ora l’uomo indicava la porta. Faustina la trascinò via.

«Hai bisogno di qualche frustata ragazza? Ti farebbero un gran bene» Faustina, dalla tunica bianca con le strisce porpora a sottolineare il suo grado tra i servi di Lucius, la spinse oltre la porta «Muoviti!». Lei non aveva gemme al collo, il suo rango era sottolineato dal fatto che la sua era incastonata su un bracciale da schiava, nascosto dalla tunica, sulla spalla sinistra. Pur essendo una schiava di Lucius, aveva il diritto di apparire libera.

Attraversarono il peristilio dirette all’atrio, un paio di servi erano al lavoro per completare le decorazioni del “recinto sacro” dove l’indomani sarebbe morta, poi Slada fu spinta dentro una stanza arredata con un letto e una sedia.

«Resterai qui fino alla festa, Cornelia ti porterà da mangiare, ti terrà compagnia e provvederà alle tue necessità personali, ma le sarà proibita ogni altra azione verso di te.»

Rimasta sola Slada passò una mano sul collare che, da quando era entrata nella casa di Lucius, era diventato la sua maledizione. Un sottile anello dorato, leggerissimo e ornato da una gemma rossa. Pareva fragile, semplice da togliere. Ma le era stato ordinato di tenerlo. Il collare la costringeva a una cieca obbedienza da parte di chiunque le avesse dato un ordine perché così aveva deciso Lucius. Era uno degli uomini più ricchi di tutta Reub e poteva permettersi molti di quei costosi gioielli. Martinus, un ex gladiatore ora guardia del corpo di Lucius, le aveva spiegato che non era importante che fosse al collo, era sufficiente averlo addosso per ricevere un’adeguata punizione per ogni ordine disatteso. Poi si era scoperto l’inguine e le aveva ordinato di succhiare. Nella sua mente era allora apparso il ricordo di qualcosa che nella realtà non aveva mai fatto. Non ancora. Non con quell’uomo. Trasalì di fronte a quell’intrusione che proiettava nella sua mente un’immagine di se stessa così aliena alla sua persona, in una posa che trovava rivoltante oltre che oscena.

Da quel primo ordine ricevuto aveva imparato che, oltre a proiettare nella sua mente l’esatto desiderio di chi le dava un comando, disattendere a un ordine costava dolore: la gemma pareva irradiare fuoco liquido che poco a poco ricopriva tutto il corpo e penetrava nella carne. O si obbediva o il dolore si estendeva e cresceva d’intensità e ricordare che si trattava di un’illusione era perfettamente inutile. Semplice, brutale ed efficace.

Si stese sul letto. Aveva imparato fin troppo in fretta cosa avrebbe patito se si fosse avvicinata alla porta, figurarsi oltrepassarla: le fitte si sarebbero centuplicate fino a farle perdere il controllo dei movimenti e, pur di interrompere quella tortura avrebbe strisciato fino alla sua prigione. Si domandò se il resto della sua famiglia fosse ancora in vita: la fattoria dove viveva era stata attaccata da razziatori, da allora non aveva avuto più modo di sapere cosa ne era stato di tutti loro. I banditi li avevano sorpresi mentre erano seduti in cucina per il pasto serale. Lei si era ritrovata nella stiva di una nave, incatenata ad altre nove ragazze provenienti dalle fattorie dei dintorni. Il viaggio era durato pochi giorni, era stata trascinata su un palco, spogliata di fronte a una folla rumorosa e venduta a un asta come una vacca al mercato del bestiame. L’elfa Anomis, l’attuale concubina di Lucius, se l’era aggiudicata per mille semiter: un buon prezzo per una schiava giovane e quindi “poco usata”. Slada comprendeva bene il maorni: la sua fattoria distava poche miglia dal confine. Aveva tentato inutilmente di liberarsi dalla catena con cui l’elfa l’aveva legata e trascinata attraverso le vie di Reub, l’aveva implorata, minacciata, aveva tentato di usare la forza: tutto inutile. Per lei era solo un animale da tenere al guinzaglio.

«Con quei capelli biondi sembri identica a mia figlia» queste le uniche parole che le aveva rivolto. A Slada era parsa fredda, priva di qualsiasi sentimento, se si fosse rivolta a una bambola probabilmente le avrebbe risposto con più calore. Giunta nella casa di Lucius altre schiave l’avevano lavata e le avevano consegnato una tunica leggera, poi era arrivata Faustina. Sul viso rettangolare della donna era comparso un sorriso duro, che pareva più un colpo di piccone tirato contro pezzo di granito. Le mostrò un gioiello scintillante come fuoco vivo che le mise al collo dicendole: «tu non dovrai toglierlo mai». Non lo sapeva, ma da quel momento ogni idea di fuga, ogni azione diversa dall’obbedire, qualsiasi risposta diversa da “sì, padrone” sarebbe divenuta impossibile.

Subito dopo aveva avuto modo di scoprire cos’era un banchetto.

C’era un’altra ragazza, giovane e simile a lei, si chiamava Carmilla. Proveniva da Lleendir. La nave su cui viaggiava era stata attaccata dai pirati e lei era stata venduta come schiava perché nessuno aveva pagato il suo riscatto. Alle altre schiave, svestite come le ninfe dell’affresco nella sala dei banchetti, era spettato il compito di servire cibi e bevande, incluse l’elfa Anomis e sua figlia Cornelia. Carmilla era vestita solo del suo collare, tenuta immobile al centro della sala dal semplice ordine impartito da Lucius: «Non muoverti finché non te lo ordino».

Dopo il banchetto la ragazza era stata condotta nel peristilio dove era stato predisposto un recinto di pali incrociati dipinti di rosso e blu e decorati con fronde di alloro intrecciate. Alla ragazza fu ordinato di chiudere la testa in un sacco di stoffa e impugnare un grosso bastone, poi fu fatta entrare nel recinto mentre gli ospiti cominciavano a gioire: «Tra poco sarai libera!» e ridevano o a commentare «Oh, Lucius, spero che duri di più stavolta», mentre altri si passavano monete e strette di mano.

Sentiva Carmilla piangere anche se nascosta dal sacco, mentre stringeva la rozza arma fino a sbiancarsi le nocche.

Poco dopo fu portata la bestia e allora Slada comprese cosa sarebbe accaduto. Non riusciva a chiamarlo cane, le era impossibile. L’animale era tenuto a forza da Martinus tramite una catena spessa quanto il pugno di un uomo, ma che nelle mani dell’ex gladiatore pareva un laccio sottile. La belva smise di tirare mentre lui apriva il collare. Poi attese immobile, le fauci serrate, lo sguardo fisso su Carmilla. Per qualche istante Slada si continuò a illudersi che quella strana cerimonia servisse ad annunciare la liberazione della ragazza, che il suo essere schiava si sarebbe concluso e sarebbe diventata una donna libera come libero ora era quel cane.

Lucius ordinò «Arripe! Iugula!» e poi mosse la destra col pollice in giù più volte mentre i suoi ospiti esplosero in un coro di crudeli incitazioni al vermiglio cruore che sgorga dalle ferite più profonde, allo strazio delle carni e a un’agonia lenta e dolorosa. Vide Martinus chinarsi sull’animale che si mosse d’impulso e con un balzò atterrò con grazia ferina in quell’arena fatta di pali. Ora non aveva più alcuna illusione sul significato di tutto quel che stava accadendo e inizò a piangere come tutti gli schiavi presenti, tranne Martinus e Faustina che annuivano compiaciuti.
Carmilla cominciò a urlare e ad agitare il bastone guidata dall’udito e da quel poco che poteva vedere attraverso la rude stoffa del cappuccio. La bestia ringhiava e schivava, e nonostante la ragazza fosse incappucciata riscì a infliggergli un paio di colpi che gli strapparono un guaito, ma appena le braccia di lei persero forza la belva si fece più audace e dopo un paio di assalti abortiti per scansare il bastone riuscì ad affondare le fauci sul braccio destro e a trascinarla a terra urlante, tra le grida degli invitati che parevano voler partecipare al massacro di quella creatura inerme. L’urlo si tramutò in un gorgoglio quando le strappò un pezzo di trachea con un morso. Carmilla morì dopo lunghi minuti di agonia, sommersa dall’entusiasmo degli ospiti cui seguirono gli applausi per Lucius, che li accolse con un sorriso carico di falso imbarazzo. Slada era certa che non avrebbe mai dimenticato i loro sguardi. Tanto il padrone di casa che i suoi ospiti avevano il medesimo scintillio negli occhi: una gioia empia, il riflesso di un orgasmo malsano scaturito da un animo oscurato dalla malvagità più oscena. Il suo sguardo, libero di muoversi a differenza del corpo, andava ripetutamente dal corpo martoriato di Carmilla da cui la belva strappava brani di carne, agli occhi delle persone che si accalcavano attorno al recinto per meglio bearsi di quello spettacolo così orribile. Gli sguardi, le risate, i commenti su come la ragazza aveva colpito la bestia ben due volte e le immancabili scommesse che venivano onorate mentre la belva continuava a sollevare spruzzi di sangue dal suo fiero pasto.

(continua)

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