Tharamys

Martina e lo Scuro

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Hai paura del buio?

Che c’è da ridere, pensi sia roba da bambini?

Forse ho usato la parola sbagliata.

Tenebre.

Hai paura delle tenebre che gli esseri umani si portano dentro?

Ecco, vedo che hai cambiato espressione.

Anche Martina ha avuto a che fare con questa sottile distinzione e, credimi, non è stato piacevole per nessuno.

La prima volta che Martina vide il buio muoversi fu presa dal panico. Il suo grido di terrore, puro e cristallino, cancellò in un battito di ciglia il programma cui sua madre e il compagno avevano appena dato inizio. Lei era accorsa così com’era, Ciro aveva bestemmiato senza schiodarsi dal letto concludendo la sua litania con « …falla star zitta quella rompicoglioni!»

Il buio cessò di agitarsi, tra le ombre della cameretta, solo quando sua madre accese la luce. Lei e Martina si erano ritrovate faccia a faccia. Il fiato grosso che condensava appena. Figlia in lacrime e madre color candeggio. Prima ancora di chiedergli cos’era successo l’aveva abbracciata, poi aveva tentato di spiegarle che era stato solo un brutto sogno e che poteva tornare a dormire tranquilla. Nell’uscire controllò che il termosifone fosse ben caldo: quella stanza pareva più fredda del corridoio su cui si affacciava.

Martina non si calmò finché la madre non gli permise di trasferirsi nel lettone, attirando su di sé le ire di Ciro che, per tutta risposta, trascorse il resto della notte sul divano «Io volevo dormire con te, se volevo una bambina avrei portato quella a letto!» le sue urla giunsero attutite dalle pareti della casa; Martina lo udì appena già persa nell’abbraccio protettivo della mamma.

La mattina successiva la donna regalò una torcia alla figlia: «Ha la dinamo, così non resterai mai più al buio, qualsiasi cosa accada».

Martina fissò i grandi occhi verdi di sua madre e rispose con un sorriso, di quelli che venivano sempre ricompensati con uno ancora più grande e luminoso. Ciro si unì a loro sfoggiando una chiostra di denti ingialliti da troppe sigarette e un fiato che sapeva di brandy economico. Martina perse l’espressione felice e arricciò il naso: non gli era mai piaciuto quell’odore.

A sera la volle provare prima che tramontasse il sole: la torcia aveva una batteria che poteva essere ricaricata schiacciando un grosso pulsante incastonato nell’impugnatura. Schiacciarlo in continuazione le avrebbe garantito tanta luce a disposizione, Mamma era stata di parola. Se ne andò a dormire con il suo regalo sotto il cuscino certa di avere una spada laser travestita da torcia elettrica.

La casa dove viveva era vecchia. Appartenuta a sua nonna e alla madre di lei prima ancora; era una di quelle vecchie case piene di angoli che intere famiglie di ragni trovavano accoglienti, capace di regalare concerti di scricchiolii e gelidi spifferi anche quando tutte le porte e le finestre erano ben chiuse. Fu uno spiffero di quel genere a svegliarla, un refolo d’aria pungente e vagamente odoroso di vecchie soffitte. Il buio, sulla parete di fronte al suo letto, si mosse. Stavolta non gridò, ignorò ogni altro suono presente nella casa e afferrata la torcia girò l’interruttore… Buio.

La parete di fondo sembrò diventare più oscura, un rettangolo di tenebre pronto a inghiottirla. Represse la voglia di urlare e cominciò a schiacciare l’impugnatura della torcia come una forsennata. Un raggio bianco, purissimo, scaturì dal led ad alta intensità e squarciò l’oscurità come un ferro al calor bianco che attraversa una parete di burro, mentre il fiato le condensava attorno.

Qualcosa aveva sfrigolato?

La luce si infranse innocua sul poster delle WinX appeso alla parete.

Niente, nessuno. No: gli occhi di Martina intuirono la presenza di un movimento ai bordi della visione. Girò di scatto la torcia, il raggio prese ad affievolirsi e poco prima di arrivare sul bersaglio si spense.

Disperata schiacciò nuovamente l’impugnatura, più e più volte. Di nuovo il raggio accecante dissolse il buio della stanza al suo passaggio e non inquadrò nulla di terrorizzante nel suo cerchio luminoso.

«C’è qualcuno?» disse, ma la voce faticava a uscire e la pelle le si arricciava, per il freddo, fin sotto le coperte.

Una mezzaluna oscura scivolò di nuovo via, sempre sul limite del campo visivo e stavolta Martina si ricordò di mantenere il pulsante in azione. Tenne la torcia con tutte e due le mani e inquadrò l’armadio nel fascio. Qualcosa s’era infilata tra le ante, ne fu convinta quando osservò con attenzione lo spazio tra i due sportelli: era più nero di quel che avrebbe dovuto. Infatti poco dopo si schiarì come se tenebra liquida fosse colata a terra.

«Chi c’è lì?» sussurrò appena per non farsi sentire da Ciro e dalla mamma. Dovevano essersi finalmente chiusi in camera da letto perché la TV era stata spenta ed era certa che presto avrebbero cominciato a fare i soliti rumori.

«Non aver paura, è solo luce non fa male vedi?» mise la mano nel fascio per mostrare che era innocua. L’ombra della sua mano si proiettò sul muro accanto all’armadio e allora lo vide.

Un ricciolo di buio si sollevò da sotto il mobile e raggiunse il confine del cono di luce, fermandosi nella penombra. Le parve attratto dalla mano proiettata. Provò a salutare e la… cosa rispose assumendo la stessa forma e muovendosi allo stesso modo. Martina rise deliziata: aveva salutato il buio e lui aveva risposto.

«Tutto bene piccola?» la voce della mamma la fece sobbalzare.

«Sì!» rispondere, infilare la torcia sotto il cuscino e sprofondare la faccia su di esso prima che lei entrasse nella stanza fu un unico, rapido ed elegante, movimento. La porta si spalancò e la luce del corridoio illuminò la stanza che divenne molto più piccola e simile a come appariva di giorno, coi giocattoli per terra e la piccola scrivania ingombra di quaderni e matite.

«Sogni d’oro amore mio» le disse la donna richiudendo la porta. Martina non attese e puntò la torcia sul muro dove prima aveva visto il buio muoversi, ma qualunque cosa fosse se ne era andata.

La notte successiva spense la luce e attese, emozionata. Di nuovo la parete del poster divenne più scura e lei sentì quello strano odore che gli ricordava luoghi polverosi e dimenticati.

Prese a schiacciare il grosso pulsante per caricare la batteria, il ronzio della dinamo coprì i rumori della vecchia casa. Quando l’odore di soffitta la raggiunse accese la torcia. Intravide l’oscurità che si ritirava dietro l’armadio.

«Ciao!» disse, mentre il fiato condensava in bianche forme. Parlò sottovoce: ancora non aveva sentito sua madre e Ciro chiudersi in camera da letto, ma sperò che stavolta nessuno entrasse a disturbarla.

L’ombra, timida e sospettosa come un animale selvatico, uscì allo scoperto. Lei riuscì a percepirla mentre si avvicinava guardinga alla zona illuminata.

D’istinto proiettò l’ombra della mano libera al confine tra il cono di luce e il buio, mentre l’altra mano era ben salda e pompava energia che la dinamo trasformava come per magia in luce.

Con un guizzo un’ombra più nera del buio circostante sfiorò quella della bambina, che ebbe un sussulto

«Mi fai il solletico!» ridacchiò sorpresa, ma non ritrasse la mano.

«Ti chiamerò Scuro, ti piace?»

L’ombra si contorse in morbide spire che a Martina piacquero tantissimo.

«È il più bel sì che abbia mai visto»

Quella notte Martina e lo Scuro divennero amici.

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