Tharamys

Lo scout e il “gregorianum”

Sarà stato il 1986, avevo 15 anni e facevo il boy scout. Sì, per sette anni ho fatto anche lo scout, non è così male se si sorvola su quello che dicono degli scout al di fuori dell’associazione. “Bambini vestiti da fresconi, guidati da fresconi vestiti da bambini”, se la cosa può suonare offensiva: lo è, ma ci ho fatto il callo. Tuttavia quello che sto per raccontare potrebbe avallare, almeno un po’, questa diceria.
Bussare alla porta di un convento e chiedere ospitalità per la notte è abbastanza semplice, specie se un po’ prima del nostro arrivo si ha telefonato al convento e ci si è messi d’accordo coi frati per l’orario di arrivo e l’offerta da lasciare (a quei tempi erano diecimila lire a persona, più o meno). Fu così che per quel mese di novembre trovammo ospitalità in quel di Frattocchie, a due passi da Viterbo, presso i frati Trappisti.

I frati misero subito in chiaro che loro avevano orari precisi: alla sera (18 e 45) si pregavano i Vespri e tutti erano tenuti a partecipare. Va be’, nulla di strano. Non era il primo convento che aveva le sue regole. La sera che arrivammo noialtri baldi giovini col fazzolettone giallo e la divisa blu puffo, tipica dell’AGeSCI, ci unimmo ai fraticelli per la preghiera del vespro subito dopo aver posato gli zaini in foresteria dove avremmo dormito. I frati sedevano nei primi banchi della chiesa e dopo pochi minuti cominciarono a cantare. Per prima cosa accordarono la voce con qualche vocalizzo, accordi maggiori, minori e quarta sospesa per scaldare la voce. Come riecheggiarono le prime note tra le navate ecco che la porta della sagrestia si riaprì e ne uscirono altri due frati che si diressero verso il fondo della chiesa. Un confratello li notò e gli fece cenno di unirsi a loro. I due, il cappuccio tirato sulla testa, si bloccarono. Quello più magro fece cenno al compagno di seguirlo. A differenza dei sandali degli altri questi portavano due scarpacce infangate, segno che fino a quel momento avevano lavorato fuori, pensai. Si piazzarono dietro tutti gli altri frati, un paio di file davanti a me.
«Audi benigne condituuuuur» attaccò il coro, le voci bene impostate e proprio belle da sentire «nostra preces cum flétibuuuus, sacràta in abstinentiiiiii a fusas quadra genàriaaaa.» Ma ecco che lo smilzo si mise a cantare, con una voce che ricordava quella delle vecchie mentre recitano il rosario il venerdì sera, cantò una cosa che “suonava simile” ma era davvero diversa
«Tacca la cappa ‘l gòmminuuur, ca ti si viano zampi in ariaaaaa»
Il compare s’aggiustò il saio, ma il dettaglio che avrebbe potuto trasformarmi nell’eroe della serata mi sfuggì. In quel periodo ero piuttosto distratto da una figliola e dai pensieri che la sua quarta extra large mi ispirava. Però quello strano latino era in qualche modo riuscito a bypassare la mora con gli occhi verdi delle cui grazie mi ero infoiat… pardon, invaghito e sentii la risposta del ciccione
«Bene facemmu a parla’ in gergamuuuuus, ca nun capisce che nun semo monganiiiis»
E pure che stavo guardando quella ragazza cantare a pieni… uh… polmoni (ma che grossi che erano) mi costrinsi a posare gli occhi su quei due che, cantando cantando, avevano lasciato il banco e si stavano avviando all’uscita.

Mi strinsi nelle spalle e tornai a contemplare l’oggetto dei miei desideri. Che poi a quei tempi ero talmente timido che proprio non riuscivo neanche a spiccicare una parola, ma sapevo cantare benino e… vabbe’, alla tipa la mia voce non interessava punto. Però quei due che si allontanavano alla chetichella mentre gli altri confratelli erano rapiti nel canto e nella preghiera mi lasciò un po’ perplesso. Concluso il vespro lascio il banco e le vidi. Piume, bianche e brune: sul banco dove avevano sostato i due, altre vicino al portone della chiesa.  Cos’era accaduto?  Lo scoprii la mattina dopo, quando prima di congedarci uno dei frati ci raccontò che la sera precedente qualcuno era entrato nel convento, aveva rubato un paio di sai e poi, non trovando nulla di prezioso e facilmente trasportabile, s’era portato via qualche gallina dal pollaio. Tacere fu l’unica cosa che mi riuscì di fare senza sfigurare. Fu allora che cominciai a meditare sulla frase “bambini vestiti da fresconi…” e quel che di vero si nascondeva dietro quelle parole.

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